Leggere le espressioni facciali e decodificare le emozioni, una cosa del tutto naturale per la maggior parte delle persone, è invece difficile per chi è affetto da disturbi dello spettro autistico. Questa difficoltà ha effetti anche sulle condizioni di vita e sulle relazioni sociali delle persone con ASD.

Fino ad oggi si era sempre pensato che la difficoltà derivasse dalle ridotte capacità di codifica dei segnali neurali da parte del cervello degli individui malati, mentre una recente ricerca ha chiarito che il problema è causato da un gap nella traduzione delle informazioni.

Lo studio dell’Università di Trento e della Stony Brook University di New York, infatti, pubblicato sulla rivista Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, mette in discussione molte convinzioni consolidate e apre a nuovi scenari.

Lo studio è stato condotto su 192 persone di età diverse con e senza disturbi dello spettro autistico. I loro segnali neurali sono stati registrati durante la visualizzazione di molte emozioni facciali e successivamente analizzati. Per farlo, il gruppo di ricerca ha impiegato un nuovo sistema di classificazione delle emozioni facciali che sfrutta l’apprendimento automatico, denominato Deep Convolutional Neural Networks. Questo approccio “machine learning” include un algoritmo che permette di analizzare e classificare l’attività del cervello mentre osserva i volti, rilevata tramite elettroencefalografia (EEG). Il risultato è una mappa molto accurata dei modelli neurali che il cervello di ogni persona applica per decodificare le emozioni.

“Le tecnologie derivate dal machine learning possono aiutarci nell’interpretazione dei segnali cerebrali nel contesto dell’emozioni. Innanzitutto possono essere determinanti nel supportare le prime fasi della ricerca scientifica di base. Ma possono anche essere impiegate direttamente per interventi clinici. Lo studio che abbiamo condotto mostra quanto sia necessaria una forte integrazione tra competenze interdisciplinari affinché l’intelligenza artificiale abbia un impatto misurabile sulla vita delle persone” commenta Giuseppe Riccardi, coautore dello studio e docente all’Università di Trento.

 

Fonte: Biological Psychiatry Journal

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